La Babele dell’assistenza domiciliare in Italia

A luglio 2017 è stato pubblicata l’indagine La Babele dell’assistenza domiciliare in Italia: chi la fa, come si fa, promossa da Italia Longeva, la Rete Nazionale di ricerca sull’invecchiamento e la longevità attiva, istituita dal Ministero della Salute con la Regione Marche e l’IRCCS INRCA.

La ricerca nasce dall’esigenza di conoscere lo stato dell’arte dell’assistenza domiciliare integrata (ADI) in Italia e di delineare i modelli organizzativi presenti nelle diverse Regioni.
Dal punto di vista metodologico, l’indagine ha investito 12 Aziende Sanitarie Locali, selezionate nell’ambito di undici Regioni italiane, equamente bilanciate tra Nord e Centro-Sud. Esse identificano un bacino di utenza pari a 10,5 milioni di abitanti, e offrono quindi servizi sanitari territoriali a circa un quinto (17%) della popolazione italiana. Con i dodici responsabili dell’ADI, coinvolti in rappresentanza delle relative ASL, è stata condotta un’intervista semi-strutturata, allo scopo di acquisire informazioni sulla struttura e il funzionamento del servizio. Ed è stato somministrato un questionario, per rilevare i dati di carattere quantitativo.

L’analisi di contesto da cui parte l’indagine è quella ben nota del progressivo invecchiamento della popolazione italiana, definito dall’ISTAT certo e intenso, che porterà il nostro Paese nel 2045-2050 al 34% di residenti ultra65enni. Nonostante si stimi tra gli anziani un incremento del numero di anni vissuti senza limitazioni funzionali, in termini assoluti il numero di cittadini con disabilità appare significativo e in aumento, interessando prevalentemente la popolazione anziana. Ciò comporta l’esigenza di spostare progressivamente il baricentro dei sistemi sanitari dall’ospedale al territorio, ponendo attenzione al mantenimento di un’adeguata qualità della vita. E questo ancor più in conseguenza dei cambiamenti che investono la struttura familiare, su cui da sempre ha poggiato il nostro sistema di welfare.

Come rileva l’indagine, forme strutturate di ADI sono presenti in Italia sin dagli anni ‘90, ma non esistono dati ufficiali circa i modelli organizzativi e i processi assistenziali presenti oggi sul territorio italiano.
Vediamo di seguito alcuni dati disponibili.
A livello nazionale fruiscono dell’ADI (anno 2014) lo 0,6% dei residenti, con un’ampia variabilità regionale: dallo 0,1% di Calabria e Valle d’Aosta, all’1,1% e all’1,2% rispettivamente di Emilia Romagna e P.A. di Trento.
L’87% degli utenti ADI sono anziani, con un tasso del 2,3% di assistiti anziani sul totale della popolazione anziana: dagli 0,3 e 0,4 assistiti ogni 100 residenti di 65 anni e più di Calabria e Valle d’Aosta, ai 4,1 e 4,2 rispettivamente di P.A. di Trento ed Emilia Romagna.
Dal 2014 al 2016 il tasso di anziani presi in carico dall’ADI è salito dal 2,3% al 2,8% della popolazione anziana totale, ma anche in questo caso con estrema variabilità territoriale. In alcune Regioni, quali il Piemonte o la Valle d’Aosta, non viene registrato alcun incremento; in altre, quali il Friuli Venezia Giulia o la Puglia, si arriva quasi a raddoppiare il tasso di anziani assistiti; in altre ancora, come il Lazio e la Basilicata, in controtendenza si riduce il tasso di anziani assistiti.
Tra il 2013 e 2014 si calcola un incremento delle persone prese in carico in ADI (+ 27,7%), ma nel corso degli anni si osserva anche una diminuzione delle ore medie erogate, pari nel 2013 a 18 ore per caso (erano state 27 nel 2001 e 23 nel 2005). Plausibilmente, si sostiene che le Regioni abbiano fatto fronte all’aumento del numero complessivo degli assistiti con una riduzione delle ore medie per singolo caso, favorendo così una maggiore copertura del servizio offerto.

I dati riportati, come dichiarato nel testo, rappresentano il frutto di un’analisi della letteratura grigia disponibile su questo tema e costituiscono una fonte istituzionale affidabile per comprendere l’andamento dell’assistenza domiciliare integrata in Italia. Tuttavia, si tratta di dati amministrativi che vengono registrati per ottemperare agli obblighi di rendicontazione economica delle Aziende Sanitarie Locali, e quindi non nascono per trarre elementi di conoscenza sui bisogni degli utenti, né sull’efficacia e l’efficienza dei modelli organizzativi esistenti. Peraltro, nonostante si rammenti l’entrata a regime del Sistema Informativo per il monitoraggio dell’Assistenza Domiciliare (SIAD), se ne evidenziano parallelamente le criticità, sia in termini di implementazione in tutte le Regioni che di disponibilità di dati funzionali a una valutazione comparata della qualità dell’ADI erogata.
Pertanto, anche in virtù di queste considerazioni, è nata l’esigenza di una ricerca sul campo, centrata sul servizio ADI erogato in un campione di Aziende Sanitarie Locali.

I risultati della ricerca tratteggiano, nelle parole del Presidente di Italia Longeva, “Una Babele di impostazioni e soluzioni che variano a partire dai distretti di una stessa ASL, frutto abnorme del Titolo V e dell’autonomia” e che originano quindi disparità di trattamento sul territorio italiano. La normativa nazionale preposta alla regolamentazione dell’ADI è stata, infatti, interpretata e declinata a livello locale secondo modelli organizzativi talvolta estremamente differenti tra loro, ad esempio nella gestione dei rapporti con i Comuni, nelle modalità di erogazione dei servizi, nella ripartizione del budget. Eterogeneità che quindi non permette di attribuire gli assetti delineati in una ASL analizzata alla sua Regione di appartenenza, ma neanche di poter comparare i risultati ottenuti tra le diverse ASL che hanno partecipato all’indagine, e ciò anche a causa di difformità nella disponibilità dei dati richiesti.

Un primo aspetto rilevato dalla ricerca riguarda la scarsa implementazione del processo di integrazione sociosanitaria che sta alla base stessa del servizio ADI. Si rileva la carenza di concreti strumenti attuativi e si denuncia come, spesso, “l’integrazione si attui nella persona stessa dell’assistito”, destinatario di prestazioni sia sanitarie che sociale, sia afferenti alla ASL che al Comune, ma assolutamente non coordinate fra di loro. Nella maggior parte dei casi si rileva che le prestazioni sono realizzate da operatori che, facendo capo a enti differenti, non sono coinvolti in momenti di raccordo strutturati. È più frequente che ASL e Comuni rispondano separatamente ai bisogni sanitari e sociali degli utenti, salvo casi di “buona volontà” degli operatori nel garantire l’integrazione. Emerge soprattutto una asimmetria tra ASL e Comuni, con le ASL a rappresentare realtà più strutturate e i Comuni caratterizzati da forti differenze in termini di dimensioni, e quindi di disponibilità di risorse, che comportano ritardi nell’attivazione della parte sociale e limiti nelle ore erogate e nelle attività svolte.

Le forme più compiute di integrazione sociosanitaria partono dalla collaborazione nel buon funzionamento del punto unico di accesso (PUA), dalla valutazione multidimensionale congiunta delle necessità di assistenza, dalla definizione condivisa del piano assistenziale individualizzato (PAI), fino ad arrivare alla realizzazione di incontri periodici per l’organizzazione e il monitoraggio del servizio integrato. Tali tratti vengono identificati in primo luogo nelle esperienze delle ASL di Reggio Emilia, Torino 5 e Umbria 1, i cui responsabili sono anche quelli che affermano più nettamente di aver raggiunto nell’ambito dell’ADI un livello di integrazione sociosanitaria soddisfacente.

In termini di erogazione del servizio, la ricerca identifica almeno tre diversi modelli di gestione:

  • uno (minoritario) totalmente in capo ai soggetti pubblici che erogano le prestazioni programmate;
  • uno (più comune) in cui l’erogazione delle prestazioni è garantita da enti gestori privati, più frequentemente cooperative, che partecipano a una gara e ottengono un incarico dall’ente pubblico (sia ASL che Comune);
  • uno (presente solo in due casi) in capo a soggetti privati che sono scelti tra una gamma di soggetti accreditati dagli stessi utenti attraverso l’utilizzo di un voucher.

A volte, anche nell’ambito della stessa realtà territoriale si verifica una commistura di differenti modelli gestionali, come nel caso della ASL di Salerno. Lì il servizio ADI é garantito tramite enti gestori privati nella parte sud della provincia e direttamente dalla ASL nella parte nord, mentre é presente un sistema misto nell’area urbana del capoluogo.

Un elemento più o meno costante nelle ASL analizzate è rappresentato da una valutazione delle necessità assistenziali sbilanciata sulla dimensione sanitaria. Per la sua realizzazione vengono usati appositi strumenti di valutazione multidimensionale. L’esecuzione spetta all’Unità di Valutazione Multidimensionale (UVM), solitamente composta da un medico, un infermiere e un fisioterapista; più raramente invece prende parte alla valutazione, almeno nelle realtà considerate, l’assistente sociale (della stessa ASL o del Comune). Inoltre gli intervistati evidenziano la mancanza di strumenti standardizzati di valutazione sul versante sociale, fattore che rappresenta un ulteriore ostacolo al processo di integrazione sociosanitaria.

Un ultimo aspetto da considerare è quello della disponibilità delle informazioni e della costruzione dei dati. In generale, le modalità di raccolta e il livello di maturazione e dettaglio dei sistemi informativi variano a seconda delle realtà considerate. In una minoranza dei casi il dato viene raccolto nel momento stesso in cui viene prodotto: la registrazione delle attività avviene in tempo reale al domicilio, tramite l’utilizzo di devices collegati in rete. In altri casi la registrazione viene compiuta in un momento successivo ed è effettuata nella centrale operativa. Eccezionalmente, come nel caso della ASL dell’Alto Adige, si rileva l’assenza di un sistema informativo condiviso dai vari distretti.
Per quanto concerne infine la cartella clinica, essa è nella maggior parte dei casi esclusivamente cartacea. Raramente avviene la compilazione, totale o parziale, di una cartella clinica digitale, come nel caso della ASL Umbria 1.

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